Relazione del Procuratore Generale di Firenze Beniamino Deidda

all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario 2010 presso il Distretto di Corte d'Appello di Firenze

Illustrissimo Signor Presidente,
la Sua completa e puntualissima relazione sullo stato della giustizia nel nostro distretto consentirebbe al Procuratore
Generale di non aggiungere nulla all’esauriente quadro che Ella ha delineato. Tuttavia è compito del Procuratore Generale dar conto in particolare dell’attività dei magistrati requirenti del distretto, ponendo l’accento non soltanto sui molti tratti positivi che tale attività ha mostrato nell’anno trascorso, ma anche e soprattutto sulle ombre e le carenze che inevitabilmente ci sono e che fanno parte di quella che da troppi anni ormai comunemente chiamiamo la “crisi della giustizia”.

1. Non mi intratterrò sulla indiscutibile e generale operosità dei Pubblici Ministeri del distretto, perché essa già risulta dai dati che Ella ha voluto elencare e neppure tornerò sulle carenze dell’apparato giudiziario tra le quali diventano sempre più gravi quelle relative agli organici dei magistrati e delle cancellerie e segreterie. Anche l’organico della Procura Generale ha subito precarie scoperture che è auspicabile non debbano durare per troppo tempo.

Tra queste voglio segnalare quella dell’imminente collocamento a riposo del collega Dario Perrucci, magistrato di grandissimo valore, a cui desidero rivolgere il mio augurio di un meritatissimo riposo.

Desidero inoltre sottolineare che le assenze dei magistrati toccano punte assai gravi soprattutto nelle Procure di Grosseto, Lucca, Pistoia e Siena nelle quali, come l’esperienza recente insegna, non è sicuro che i posti verranno coperti. Quanto agli organici degli impiegati amministrativi è evidente lo stato di generale sofferenza in tutte le Procure del distretto. Vi è stata una progressiva erosione delle piante organiche negli ultimi anni durante i quali gli inevitabili vuoti non hanno visto la copertura dei posti lasciati liberi, mentre da oltre dieci anni non vi sono nuovi ingressi per concorso.

Ho peraltro il dovere di segnalare in particolare la situazione dell’organico amministrativo della Procura della Repubblica di Prato che si rivela sempre più inadeguato rispetto alle concrete esigenze di quel territorio. Basti pensare che sono otto i magistrati in servizio in quella Procura e che il personale amministrativo è appena di ventiquattro unità, il meno provvisto di tutta la Toscana, se si eccettuano le Procure di Siena e Montepulciano. Occorre aggiungere che vi è una proposta di nuova pianta organica approntata dal Ministero, nella quale l’organico della Procura di Prato viene ancora incredibilmente ridotto. La revisione delle piante organiche sarebbe un’occasione preziosa per un adeguamento proporzionato al volume e alla qualità degli affari abitualmente trattati dalla Procura della Repubblica di Prato. Aggiungo che Prato, da questo punto di vista, rappresenta un vero e proprio “caso” nazionale , i cui drammatici termini sono noti al Ministero da almeno un decennio e hanno indotto lo scorso anno il Procuratore Generale, durante la cerimonia inaugurale dell’ anno giudiziario, a chiedere un intervento risolutivo degli uffici centrali competenti.

2. Pur tra queste ed altre difficoltà occorre riconoscere che gli uffici requirenti del distretto hanno mantenuto un apprezzabile livello di efficienza, conseguendo talora lusinghieri risultati. Ma sento il dovere di affermare che questi risultati non sarebbero stati conseguiti senza il decisivo contributo offerto alla magistratura requirente dalle Forze dell’Ordine del nostro distretto. Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e tutti gli altri Corpi di polizia giudiziaria si sono prodigati instancabilmente nell’opera di collaborazione che ha consentito ai magistrati del pubblico ministero di affrontare con successo procedimenti difficilissimi. Va dunque dato atto del fatto che la preziosa professionalità degli Organi di Polizia Giudiziaria costituisce un insostituibile supporto all’azione della magistratura e la solida base di tutti i risultati raggiunti.

Tra i tanti casi avvenuti è doveroso citare l’incidente ferroviario accaduto alla Stazione di Viareggio il 29 giugno del 2009 che, per le sue conseguenze, è senz’altro l’incidente più grave avvenuto dal dopo guerra in ambito ferroviario. Sono morte 32 persone investite dall’incendio che si è sviluppato per il deragliamento di un carro merci che trasportava gas liquido. Le indagini sull’accertamento dei fatti e sulle relative responsabilità si sono presentate subito di estrema difficoltà, sia per la dinamica dell’incidente, sia per la farraginosità e le difficoltà di interpretazione di una normativa tecnica abbondante e disordinata. Finora la Procura della Repubblica di Lucca, che lavora alacremente sul caso, non è stata in grado di individuare le persone da sottoporre ad indagine, il che ha creato comprensibile ansia nei familiari delle vittime, nelle loro Associazioni e, più in generale, nell’opinione pubblica. Sento perciò il bisogno, anche a nome dei magistrati di Lucca, di assumere pubblicamente l’impegno di accertare con tempestività e con rigore la dinamica e le responsabilità legate al disastro di Viareggio. Tanto più che il valore dei magistrati e del gruppo di investigatori che è con loro impegnato nelle indagini costituisce la rassicurante garanzia di un proficuo lavoro.

3. Se la strage di Viareggio è stato l’evento più grave che ha funestato il nostro distretto non può essere passato sotto il silenzio un altro fenomeno di estrema gravità che da tempo caratterizza il nostro territorio. Accenno ai reati contro la salute dei lavoratori e in particolare ai delitti di infortunio e malattie professionali.

Nel corso del 2009 vi sono stati nella nostra regione 76 infortuni mortali sul lavoro mentre è imprecisato, ma certamente non inferiore, il numero dei morti per malattie professionali cagionate da esposizione ad agenti nocivi durante il lavoro. Complessivamente il numero degli infortuni denunciati in Toscana nel 2009 è stato di 66.668, mentre il numero delle malattie professionali denunciate è stato di 3.489. Si tratta di numeri imponenti che pongono la Toscana nel novero delle Regioni nelle quali il rischio per la salute dei lavoratori è certamente ancora preoccupante.

Purtroppo però la trattazione dei procedimenti penali relativi agli infortuni e malattie professionali da parte degli uffici giudiziari non è stata soddisfacente: si celebrano ancora pochi processi per infortunio e pochissimi per malattia professionale, e solo un piccolo numero di essi si conclude con la condanna degli imputati. Il fenomeno non è certamente solo toscano, ed è così diffuso da suscitare i severi rilievi da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale con deliberazione del 28 luglio 2009, nel diffondere i risultati di un’ampia istruttoria esperita dalla VII Commissione del Consiglio, ha tracciato un quadro non rassicurante circa la repressione di questi reati. Il C.S.M., ha rilevato in particolare che la situazione è disomogenea sul territorio nazionale soprattutto riguardo alla costituzione di gruppi di lavoro specializzati presso le Procure. Il C.S.M. ha concluso invitando gli uffici requirenti ad adottare in sede di organizzazione dei rispettivi uffici ogni misura idonea affinchè la trattazione e la repressione dei reati in materia di infortuni sul lavoro sia assicurata con tempestività ed efficacia.

Per aderire al pressante invito formulato dal Consiglio Superiore è intenzione del Procuratore Generale della Toscana di impegnare i Procuratori della Repubblica del distretto a farsi carico di un progetto capace di rispondere in maniera tempestiva ed efficace alla domanda di giustizia che viene dai rispettivi territori, in una materia caratterizzata da esigenze di spiccata specializzazione e che attiene ai diritti fondamentali della persona.

4. Come vede, Signor Presidente, il Procuratore Generale sente il dovere di segnalare anche le carenze di noi magistrati insieme a quelle già lamentate di altri organi dello Stato, che sono oggettivamente causa di gravi disfunzioni della giustizia. Se ho fatto cenno alle inerzie di altri organi non è certo per allontanare dalla magistratura quella responsabilità che, più o meno esplicitamente, le viene attribuita in ordine alle disfunzioni della giustizia nel nostro Paese. Anzi, è mia ferma convinzione che sia del tutto inutile una sterile polemica che tenda ad addossare a questo o a quell’organo istituzionale la responsabilità delle condizioni in cui versa la giustizia. Questa non è l’ora delle polemiche e delle sterili contrapposizioni; è piuttosto il momento dello sforzo concorde per individuare i modi per uscire dalla crisi che attanaglia la giustizia.

Individuare questi modi è compito ineludibile dei magistrati. E’ ai magistrati, e non ad altre Istituzioni, che la nostra Costituzione assegna il compito di assicurare giustizia. Non è dunque opportuno che i magistrati si limitino a reclamare gli interventi necessari, restando in sterile attesa, come se solo il Parlamento ed il Governo avessero il compito di far funzionare la giurisdizione. Ed invece tocca ai magistrati di rendere giustizia, anche quando le leggi mancano o sono inadeguate, anche quando mancano o sono insufficienti le risorse destinate al funzionamento dei servizi fondamentali. Noi siamo ben consapevoli che alle parti del processo, o semplicemente ai cittadini, non possiamo dire che le leggi sono inadeguate, le strutture carenti, il personale insufficiente e che tutto questo non dipende da noi. Per i cittadini che aspettano giustizia siamo noi, e non altri, che in ogni vicenda processuale rappresentiamo la Repubblica e lo Stato, secondo la profonda e felicissima intuizione del capoverso dell’articolo 3 della Costituzione. Dunque è necessario che noi abbiamo la lungimirante consapevolezza che dobbiamo assumere interamente il carico della giurisdizione, come se fossimo noi magistrati i soli responsabili di tutto.

Perciò non cercheremo nessuna giustificazione, non chiameremo nessuno a dividere questa responsabilità, nemmeno quando questo potrebbe apparire ragionevole o addirittura giusto.

5. L’anno appena trascorso ha visto molte iniziative legislative che si sono tradotte in legge e altre che sono tuttora all’esame del Parlamento. Tradizionalmente ci si aspetta dai magistrati nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario che essi comunichino all’opinione pubblica, con rigore ma senza inutili tecnicismi, quali sono le conseguenze pratiche sul funzionamento degli affari giudiziari che derivano dall’introduzione di norme che non sfuggono evidentemente alla dialettica politica.

Nel brevissimo tempo di questo intervento non è possibile esaminare tutte le nuove norme. Ma non si può tacere che è stato introdotto con Legge n.94 del 2009 l’articolo 10-bis del D.L.vo n. 286/98 che punisce il reato di immigrazione clandestina, reato che presenta una singolare caratteristica. Per la prima volta nel nostro ordinamento si viene sanzionati penalmente non per aver commesso un fatto illecito, ma perché ci si trova in una determinata condizione personale. Lo straniero clandestino viene punito non per avere commesso un fatto che le nostre leggi penali prevedono come illecito, ma per il solo fatto di trovarsi sul territorio nazionale in contrasto con le norme contenute nel decreto sull’immigrazione. Si tratta di uno “strappo” che incide profondamente sui diritti fondamentali delle persone e che è capace di introdurre una frattura nel sistema di garanzie costituzionali previste nel nostro ordinamento.

Altra iniziativa che desta non poche preoccupazioni è la presentazione al Parlamento del disegno di legge n. 1880/S, recentemente approvato dal Senato, conosciuto come “disegno di legge sul processo breve”. Il Procuratore Generale non può né vuole raccogliere le critiche che da molte parti politiche si sono rivolte al contenuto della legge. Ma non può evitare di osservare che il disegno di legge curiosamente reca il titolo ‘Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi in attuazione dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo’. Intitolazione curiosa perché dall’articolato approvato in Senato non è dato scorgere alcuna tutela per i cittadini. Anzi, si è introdotto in sostanza un limite alla durata del processo nelle varie fasi stabilendo che, se esso non si esaurisce entro un tempo predeterminato per ogni grado, il processo si estingue. Se dunque il cittadino da tutelare è una parte offesa o un imputato innocente quella tutela non sarà accordata: essi non avranno la soddisfazione né di vedere riconosciuti i propri diritti, né di vedere affermata la propria innocenza. L’unica “tutela” sarà per gli autori di reati anche gravissimi, ai quali non parrà vero che lo Stato decida di decretare la fine del processo, estinguendolo definitivamente per l’oggettivo decorso del tempo. E così accadrà che andranno in fumo delicatissimi processi penali caratterizzati da lunghe e complesse indagini, da costosi accertamenti dibattimentali che non possono omettersi se non sacrificando la verità e la giustizia, solo per il fatto che oggettivamente e inevitabilmente hanno richiesto molto tempo. Per i quali dunque non l’inerzia del giudice, ma proprio il laborioso impegno occorrente per fare giustizia determina l’estinzione. Così accadrà che rischiano l’estinzione, tra gli altri, per avere superato la durata predeterminata per legge, i processi relativi ai gravissimi attentati all’ambiente e alla salute, all’incolumità dei lavoratori sui luoghi di lavoro (per esempio il processo per i morti della Thyssen) o, per rimanere nel nostro distretto, il processo per la strage della Stazione di Viareggio di cui abbiamo già fatto cenno. Chi lo dirà, se dovesse accadere, ai padri e alle madri di Viareggio, che hanno perso ragazzi di 18 o 20 anni, che lo Stato rinunzia a accertare la verità e le responsabilità per la morte dei loro cari, solo perché l’indagine e il processo si sono rivelati complicati e difficili? La verità è che in mancanza di risorse e di misure capaci di favorirne la speditezza, nessun processo durerà neppure un giorno di meno e, anzi, verrà a molti la tentazione di escogitare nuovi ostruzionismi fino all’estinzione. Questo non è il processo breve, ma il processo vanificato e il processo negato.

Vorrei infine notare come l’art. 111 della Costituzione, nel regolare il giusto processo, pretenda che la legge ne assicuri la “ragionevole durata” che è concetto diverso dalla durata astrattamente predeterminata per legge, giacchè la durata ragionevole varia da caso a caso ed è in stretta relazione con le difficoltà e la complessità dei processi medesimi. Nessuno potrà dire “ragionevole” un processo che duri cinque anni per stabilire le responsabilità di una banale contravvenzione, mentre è senz’altro ragionevole lo stesso termine in un processo complesso che richieda diversi accertamenti tecnici o indagini accurate e difficili.

Temo, per concludere su questo punto, che anche le norme sul cosiddetto processo breve seguano la medesima tendenza che ha caratterizzato gli interventi normativi degli ultimi anni. Interventi che hanno allontanato la conclusione dei processi, introducendo nuovi impedimenti e ritardi sotto forma di “garanzie” per gli imputati. Si è fatto strada un falso garantismo che, senza nulla aggiungere ai diritti della difesa, ha reso il processo penale simile ad un percorso ad ostacoli allontanando nel tempo la decisione del giudice. Quanto le sacrosante garanzie per le parti e per i difensori diventano pretesto per allontanare nel tempo la pronunzia del giudice o, anzi, per sottrarsi a quella pronunzia, qualcosa evidentemente si rompe nel rapporto tra la giustizia e i cittadini e soprattutto si allontana la speranza di un processo che si concluda in tempi ragionevoli.

6. Da qualche anno ormai durante la solenne cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario non riusciamo a dedicarci esclusivamente a quella riflessione sui temi della giustizia e al pacato confronto tra magistrati avvocati ed esponenti delle istituzioni che più volte è stato auspicato dal Consiglio Superiore della Magistratura. Siamo stati distratti e turbati da polemiche, da attacchi all’ordine giudiziario e da un clima di scontro che non si addice al mondo della giustizia. Anche quest’anno non fa eccezione e qualche eco se n’è avuta anche oggi in quest’aula. Ha fatto molto bene il Presidente della Corte ad avvertire l’esigenza insopprimibile di un ritorno alla pacatezza e a quella serenità che deve caratterizzare i rapporti tra i poteri dello Stato e la Magistratura. Per parte mia aggiungerò che questo è il momento della compostezza istituzionale, anche di fronte ad attacchi scomposti o ingiusti che possano arrivare da altri. Questo è il momento in cui ciascuno di noi, messe da parte le facili contrapposizioni, deve individuare con rigore i suoi compiti nella consapevolezza che rendere giustizia è un’opera a più mani per la quale è necessario che ciascuno faccia la sua parte. E la parte che tocca ai magistrati è fortemente condizionata dal grado di maturità dell’intero ordine giudiziario, dalla sua capacità di autogovernarsi, di autoriformarsi e di compiere scelte costituzionalmente orientate.

7. C’è un ampio margine di intervento perché i magistrati, e soprattutto i capi degli uffici giudiziari, si facciano carico di ottenere una migliore efficienza e qualità del servizio giustizia secondo la regola costituzionale del buon andamento della amministrazione pubblica .

In questa prospettiva lo sforzo principale deve essere rivolto a ridurre l’intollerabile lunghezza dei processi penali e civili. Se non vogliamo che altri soggetti strumentalmente invochino questa elementare esigenza di civiltà giuridica, occorre che noi ci chiediamo cosa possiamo fare perché i processi abbiano minore durata. Del resto, da quando il principio della ragionevole durata è stato introdotto nella nostra carta costituzionale, non mi pare che siano state adottate prassi tali da invertire la tendenza dei tempi lunghi del processo. E invece è possibile migliorare la nostra organizzazione, orientarla verso il fine che l’articolo 111 della Costituzione ci impone, destinare risorse umane e strumentali all’obiettivo di rendere giustizia in tempi rapidi.

Questo sforzo di autoriforma dal basso è necessario ed è possibile, come dimostrano le numerose iniziative virtuose dei vari osservatori disseminati sul territorio nazionale. Coloro che portano avanti queste preziose esperienze non hanno aspettato il legislatore per intervenire in quello spazio che ogni legge lascia all’acume interpretativo, al senso di organizzazione, al senso civico e alla buona volontà di chi le norme deve poi applicarle. E’ su questo prezioso terreno che dovremmo dispiegare le nostre energie, consapevoli che è in atto nel nostro paese una trasformazione culturale profonda del ruolo della giurisdizione e della collocazione sociale della Magistratura. Se non vogliamo correre il rischio di vedere crescere intorno a noi l’impopolarità e, anzi, di venire ingiustamente additati (come taluno superficialmente fa) come nemici della democrazia da ricondurre entro gli innocui confini dell’esercizio di una giurisdizione svalutata, dobbiamo pazientemente farci carico delle iniziative di autoriforma e di miglioramento del servizio, per mantenere alla giurisdizione il suo senso più alto di garanzia irrinunciabile per i cittadini.

8. In quest’opera, che è lunga, paziente e difficile noi non possiamo fare da soli. E soprattutto non possiamo fare senza quella parte essenziale del processo che è la difesa. Sappiamo che le associazioni degli avvocati attraversano un momento che li vede in contrapposizione, talvolta anche aspra, con il Governo, con il Parlamento e con la stessa Magistratura. Sappiamo anche che non tutti gli avvocati condividono le decisioni e gli argomenti degli organismi che li esprimono. Dirò non schiettezza che talvolta personalmente neppure io ho condiviso alcune analisi o argomentazioni. Ma tutto questo ha scarsa importanza, anzi non ne ha nessuna. C’è solo da sperare che la dialettica sia feconda e consenta una approfondita elaborazione dei temi della giustizia.

Quello che invece conta, e che non possiamo abbandonare, è il terreno della quotidiana collaborazione con gli avvocati. E’ necessario che avvocati e magistrati condividano le responsabilità delle scelte quotidiane in materia di organizzazione delle udienze, della scelta di protocolli di comportamento in grado di tagliare i tempi morti; che condividano il tentativo di costruire leali comportamenti processuali nell’interesse della giustizia e dei soggetti da loro difesi.

Insieme agli avvocati è necessario costruire un percorso in cui prima di tutto si selezionano gli interessi primari e si individuano le indilazionabili priorità e poi ci si adopera per perseguirle concretamente.

L’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato che quando gli avvocati hanno partecipato a queste iniziative, mirate ad ottenere efficienza e processi più rapidi, l’intesa è stata facile e proficua, al di là di ogni differenza ideologica. Essi dunque sono interlocutori irrinunciabili in una visione articolata dell’organizzazione giudiziaria che funziona solo se tutti gli ingranaggi girano per il verso giusto. La macchina della giustizia perciò non può fare a meno di altri apporti indispensabili: ha bisogno dell’efficienza degli apparati amministrativi, ha bisogno della professionalità e dell’abnegazione dei cancellieri e dei segretari che rendano possibili il perseguimento degli obiettivi che l’ufficio giudiziario si è dato; ha bisogno delle dotazioni tecnologiche, senza il cui apporto la giustizia è senz’altro più povera e più lenta; ha bisogno di un contatto continuo e fecondo con l’Università e con le altre istituzioni culturali del nostro territorio. E soprattutto c’è bisogno che tutti questi soggetti agiscano non come corpi separati, ma siano uniti in un confronto e in uno scambio che consenta di raggiungere il complessivo risultato di rendere giustizia ai cittadini

9. Questo sarà dunque il nostro atteggiamento costruttivo anche dinanzi alle riforme che vengono annunciate. Non nascondiamo che anche noi vorremmo le riforme, anzi vorremmo una vera riforma della giustizia, che consenta finalmente di dare ai cittadini decisioni tempestive e insieme meditate. Finora non siamo riusciti a vederne di convincenti. Ma vogliamo assicurare che, diversamente da quanto va dicendo un ingannevole ritornello, noi non intendiamo sostituirci al legislatore o condizionare il Potere legislativo. Siamo pronti ad applicare senza battere ciglio qualunque norma venga approvata dal libero Parlamento sovrano, com’è giusto che accada in una democrazia fondata sulla divisione dei poteri. Ma riteniamo nostro dovere, nell’ambito di una rigorosa interpretazione del nostro ruolo, di segnalare quali conseguenze tecnico-giuridiche abbia nell’ordinamento e sulla giurisdizione l’introduzione delle nuove norme. Soprattutto, quando esse contengano discipline in contrasto con i principi costituzionali.

Vorremmo continuare a farlo anche ora che insistentemente si parla di riforme della Costituzione, della seconda parte, naturalmente, come tutti si affrettano a precisare. Ma noi sappiamo bene che non solo nella prima parte della Costituzione, ma anche nella seconda parte della nostra carta sono contenuti principi irrinunciabili, che non sono disponibili dalle maggioranze parlamentari. Uno di questi è l’indipendenza di tutti i magistrati su cui molto semplicemente riposa la garanzia dei diritti di tutti i cittadini, sia che appartengano alla maggioranza sia che facciano parte delle minoranze politiche. E le garanzie in uno stato di diritto sono patrimonio irrinunciabile di ogni cittadino e non si annullano a colpi di maggioranza.

Sono queste, Signor Presidente, le cose semplici che vogliamo dire quando, con sobrietà ma con fermezza, dichiariamo la nostra fedeltà alla Costituzione: una fedeltà che non è pregiudiziale rifiuto degli ammodernamenti che i tempi abbiano reso necessari. E’ solo l’adesione convinta a quei principi di libertà, di democrazia e di garanzia dei diritti fondamentali che non vorremmo vedere mai toccati né da riforme unilaterali, né da riforme condivise.

Con questi intenti, Signor Presidente, Le chiedo di dichiarare aperto l’Anno Giudiziario 2010.

Firenze, 30 gennaio 2010

IL PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA
Beniamino Deidda