Relazione di Beniamino DEIDDA al Congresso di MD a Napoli 29 ott.-1 nov.2010

Questo congresso trova la sua ragione nella recente sconfitta elettorale. Una sconfitta che molti hanno definita bruciante. E’ stato giusto chiedersi nel precongresso quali siano state le cause della sconfitta. Ho letto in proposito molte analisi, alcune delle quali acutissime. Ma la varietà delle risposte è stata notevole: si è sostenuto tutto e il contrario di tutto.
Insomma, alla fine di corpose letture della nostra lista ho concluso che la vera ragione della nostra sconfitta elettorale è, come direbbe il signor di Lapalisse, che abbiamo preso pochi voti. Scusate se sdrammatizzo, ma ormai le elezioni sono passate e bisogna andare oltre. E’ certamente importante capire le ragioni per cui abbiamo perso. Non è stata la prima volta. Chi ha memoria ricorderà altre sonore batoste elettorali, anche più gravi di questa. Ma il problema, dopo ogni sconfitta, non è quello di contare quanti siamo, ma di capire dove andiamo. Altre volte l’abbiamo fatto e, sembra, con qualche successo.
Ora invece nella nostra corrente sta avvenendo un fatto curioso. In passato quando si incontrava un collega, non veniva in mente a nessuno di chiedersi a quale corrente dell’Associazione appartenesse. Ora invece, quando incontro un collega di MD, della nostra corrente, vengo assalito da atroci dubbi: sarà un efficientista? sarà un identitario? E cerco nei suoi discorsi un segno, una traccia che mi faccia capire se è amico di un amico di Cascini o se va a pranzo con Beppe Santalucia. Per parte mia, per evitare illazioni, confesso che vado regolarmente a pranzo con un amico intimo di Beppe Cascini. Quando siamo di buonumore invitiamo anche la Paola Belsito, che notoriamente non ha amici. Infine qualche volta la sera chiamo al telefono Livio Pepino, così mi metto a posto la coscienza.
Converrete, cari colleghi, che questa non è vita. Se vogliamo davvero capire dove andiamo, occorre partire da un dato certo. Dentro MD non siamo tutti di un’idea. Abbiamo differenti visioni della politica e delle istituzioni, diverse idee sulla giurisdizione e perfino sull’organizzazione dei nostri uffici. Ma questa è la nostra ricchezza. Una ricchezza che inspiegabilmente disperdiamo in contrapposizioni e personalismi, con una conflittualità che non sempre trova la sua ragione nella differenza delle posizioni ideali e politiche. Questo rischia di dividere la corrente senza alcuna necessità. I personalismi in passato non hanno mai prevalso, neppure quando coloro che avevano visioni diverse -e quale diversità!- si chiamavano Marco Ramat, Generoso Petrella e Pino Borrè. Che i personalismi prevalgano oggi, mi sembra un pessimo segno.
Dinanzi a noi c’è una grave questione di metodo; abbiamo bisogno di un diverso stile quando ci confrontiamo. Lo stile che preferisco è quello di un confronto schietto, anche aspro, senza diplomazie e senza sconti, capace di pervenire a conclusioni che, una volta adottate, tutti si impegnano lealmente ad attuare. Quando ci sono lealtà ed amicizia, gli scontri tra persone per bene lasciano sempre qualcosa di buono, anzi di prezioso, e un senso fortissimo di solidarietà.
Non sempre negli ultimi tempi ci siamo attenuti a questi canoni lineari e responsabili. Accennerò solo ad uno dei modi, per me sbagliati, di confrontarci.
Intendiamoci, dare della “vecchia ciabatta” a me o a Palombarini lo trovo fisiologico. E’ l’alternarsi delle generazioni e poi la parola ciabatta evoca un’atmosfera familiare e pacifica che non mi dispiace. Trovo invece spiacevole che a coloro con i quali non ci si trova d’accordo, su questioni anche importanti, si dica, come è capitato, che vogliono svendere il patrimonio ideale di MD. Si tratta di una sciocchezza che non ha nessun riscontro nella realtà. Il patrimonio di MD non si svende per la ragione essenziale che nessuno lo vuole comprare. E nessuno lo compra per la semplice ragione che il patrimonio di MD fa paura. Fa paura a questa politica e a questa maggioranza, perché , come dice nella sua elegante prosa il nostro capo del Governo, siamo un’associazione a delinquere di magistrati rossi, e soprattutto di PM che vogliono sovvertire i risultati elettorali. Dunque non c’è il pericolo di nessuna svendita. C’è invece il pericolo che noi sottovalutiamo questa inconciliabilità tra il nostro modo di essere e di operare e una massa di benpensanti che da 15 anni mantengono al governo un signore ricchissimo impegnato a cambiare i connotati dello Stato di diritto e a sbarazzarsi della Costituzione repubblicana.
E qui credo che tocchiamo il cuore della risposta alla nostra domanda:dove vogliamo andare, cosa dobbiamo fare. Io non credo che tra di noi sia molto diffusa l’ingenuità di pensare che in questo momento possiamo essere solo una corrente dell’ANM o addirittura che l’ANM debba privarsi delle correnti. Certo è fondamentale che noi stiamo nell’ANM e che dentro l’Associazione facciamo ciò che hanno fatto benissimo Elena Paciotti o Edmondo Bruti Liberati (per citare i due esempi più luminosi dell’azione associativa che ci ha fatto riscuotere consensi sia dentro che fuori dall’Associazione). Ma MD non può svolgere solo questo fondamentale ruolo associativo. Occorre oggi più che mai farsi carico di un compito che è sempre stato nel nostro orizzonte.
Raramente ho vissuto periodi in cui la presenza di MD in questo paese mi sia parsa più necessaria; la presenza, cioè, di un soggetto capace di custodire le istituzioni, di tener ferma la barra della Costituzione, di ritessere la tela del senso dello Stato. Di un soggetto capace di rimediare ai guasti prodotti da un populismo ignorante e autoritario. Per 15 anni l’immagine della magistratura è stata infangata dalle accuse di complotto, di parzialità e di persecuzione per fini politici che non trovano l’eguale in nessun paese di civiltà avanzata. Per 15 anni le istituzioni sono state usate come uno scendiletto da chi ha il potere. Insieme a questo sfascio è cresciuta la corruzione che pone al paese e all’intera magistratura una grave questione di moralità pubblica, alla quale nemmeno noi siamo del tutto estranei.
Una politica priva di un robusto senso delle istituzioni non potrà rimediare da sola a questi guasti.
C’è bisogno di un soggetto collettivo di intellettuali che, senza arroganza e senza presunzione, mostri come una concezione patrimoniale dello Stato e delle istituzioni attenta ai fondamenti della società civile, che denunzi con decisione le illegalità e gli strappi allo stato di diritto, che sappia indicare le soluzioni giuridiche in linea con i valori della Costituzione.
Per fare questo MD dispone di un formidabile strumento: la giurisprudenza. Dobbiamo tornare ad occuparci innanzitutto della nostra giurisprudenza sui temi cruciali delle libertà e dei diritti fondamentali. Vedo pronunzie di colleghi, anche di MD, che sono stanche, svogliate, inadeguate a cogliere le novità e soprattutto insufficienti a rimediare al gravissimo attacco che viene portato ai diritti fondamentali e all’eguaglianza dei cittadini. Dobbiamo abbandonare l’illusione che solo noi di MD abbiamo la capacità di rinnovare la giurisprudenza. Non è vero. Sono tanti i colleghi che dentro correnti diverse dalla nostra mostrano rigore nella difesa dei diritti essenziali, capaci di non piegare la schiena e di dire no ai potenti. Recenti ricerche scientifiche hanno accertato che il DNA dei colleghi di MD presenta impressionanti analogie con quello dei colleghi di altre correnti. Non c’è dunque nessuna ragione che giustifichi atteggiamenti autoreferenziali, spocchiosi o arroganti. E necessario anzi radunare intorno a noi tutti i colleghi di buona volontà con i quali si possa organizzare una intelligente resistenza allo sfascio che avanza.
E poi dobbiamo tornare ad occuparci della giurisprudenza altrui, sottoponendola a critica rigorosa, sollevando un dibattito ampio sui tanti casi di giustizia negata e sulle storture contenute nelle sentenze, che è cosa diversa dall’attacco personale nei confronti dei giudici che hanno scritto le sentenze. Sarà questa la miglior risposta agli attacchi che vengono portati alla nostra indipendenza.
Il quadro che abbiamo davanti è sempre più fosco. Sta per essere varata la riforma della giustizia, che vedrà la fine della giurisdizione come l’abbiamo conosciuta dal dopoguerra in poi. I PM, sottomessi all’esecutivo, stanno per diventare il braccio disarmato della polizia e i giudici stanno per ricevere solo quei processi che passerà il convento governativo. Le carceri scoppiano come non mai. I problemi dell’immigrazione e della convivenza premono sempre di più alle porte dei nostri Tribunali. Le grosse imprese approfittano della globalizzazione per minacciare i diritti individuali dei lavoratori che sembravano ormai acquisiti fin dallo Statuto dei lavoratori. L’arretrato degli uffici giudiziari è diventato ingestibile e senza rimedio. La risposta alla domanda di giustizia è sempre più flebile ed inadeguata. Cosa deve succedere ancora per capire che il ruolo di Magistratura Democratica è sempre più necessario, se vogliamo continuare ad essere uno stato di diritto, anzi uno stato di diritti?
In questa battaglia la politica, pur essenziale, non basta, occorre che un gruppo organizzato di magistrati come noi raccolga consensi tra i colleghi e la società civile facendo una battaglia che richiede coraggio e chiarezza lungimirante.
Questo è il lavoro che ci attende. Per farlo bene abbiamo bisogno della pluralità delle idee, come condizione essenziale perché sia fecondo. Molti lamentano che abbiamo idee diverse su questioni essenziali. Ma questa non è solo la nostra ricchezza, è anche la nostra fortuna, ciò che ci permette di stare dietro ai tempi e alle sfide nuove. Altri sostengono che questo ruolo di MD non viene capito dai giovani che hanno scarsa attenzione alle questioni della moralità pubblica o al destino delle istituzioni. Perciò molti, si dice, evitano di avvicinarsi a noi e sono più sensibili al richiamo di altre correnti più attente, magari con un’ottica corporativa, alle condizioni di lavoro dei magistrati. Credo che dovremmo occuparci seriamente, come del resto già facciamo, delle condizioni in cui i colleghi lavorano e, ancor più, dell’organizzazione degli uffici. Ma tutto questo ha senso se è chiaro che cosa intendiamo fare nei nostri uffici e quali sono gli obiettivi che vogliamo assegnare al nostro lavoro. Lasciatemi dire che, a volte, abbiamo dei giovani un’idea che assomiglia alla caricatura delle giovani generazioni. Non credo sia vero che i giovani non colgono le questioni di fondo o i valori in gioco. Io non li credo dei deficienti incapaci di cogliere le differenze tra Caliendo e Bruti Liberati o tra Cosimo Ferri e Livio Pepino. Molti giovani anzi le colgono benissimo e per opportunismo o per una pretesa apoliticità del magistrato ci evitano. Ricordo in passato giovani che prima di entrare nella mia stanza si sinceravano che il corridoio fosse deserto. Oggi abbiamo fatto qualche passo avanti, ma non tanti da impedire che qualche giovane si ritragga di fronte al rigore dell’impegno che noi chiediamo. Non è un buon motivo per evitare di indicare loro con chiarezza le cose in cui crediamo, specialmente se saranno accompagnate dall’esemplare professionalità di chi le propone e da una tensione civile capace di conquistare i migliori di loro.
Ma tutto questo ha bisogno di un progetto, un nuovo grande progetto di MD, utile per i vecchi e soprattutto per i giovani. Molti spunti convincenti di un nuovo progetto li ho colti nel documento di Borraccetti, Cassano e Vigorito che per nostra fortuna ci rappresentano al C.S.M.. Insieme ad altri spunti che verranno dal Congresso potranno costituire la robusta base del rilancio di MD nella magistratura e nella società.
Dicevo che la diversità delle idee e delle convinzioni è la linfa che consente l’elaborazione migliore delle nostre linee d’azione. Non abbiamo bisogno di unanimismi o di compromessi. Abbiamo bisogno invece di un progetto che sia la sintesi alta delle nostre differenti elaborazioni. Ad esso ci atterremo senza provocare scissioni o spaccature che in questo momento sarebbero un vero regalo per questa politica e per questa maggioranza di governo.
Coltiviamo dunque i nostri dissensi, senza personalismi, confrontandoci sul merito delle cose.
Ma c’è una cosa, una sola, su cui non potremo avere diverse opinioni. I magistrati di questo paese hanno un grande potere: possono incidere sulla libertà dei cittadini, possono decidere dei loro beni, possono influire sul destino delle persone. Un potere grande e terribile. E’ bene chiedersi a vantaggio di chi questo potere debba essere esercitato. A questa fondamentale domanda la nostra risposta è sempre stata una: a vantaggio di quelli che non hanno altra forza che quella del diritto. Ed abbiamo sempre pensato che il compito di “rimuovere gli ostacoli” spetti a ciascuno di noi.
Per l’ultimo dei barboni che domani dovrò giudicare, per l’extracomunitario che dovrà comparire in udienza, il capoverso dell’articolo 3 della Costituzione suona così: è compito del giudice Deidda rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto, ecc. Abbiamo sempre sentito che questa era, anzi è, l’unica lettura che garantisca una giustizia davvero eguale per tutti. Le idee di giustizia e di eguaglianza sono antiche come le montagne. E’ questo desiderio di giustizia e di eguaglianza che ci ha tenuti insieme fino ad oggi. Continuerà a tenerci uniti anche per il futuro.
Beniamino Deidda